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Il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Posted by lorenatorresan su 8 febbraio 2010

Caterina ha 35 anni, fa la casalinga, è sposata e ha due bambini. Non ricorda quando ha incominciato a preoccuparsi in maniera eccessiva delle pulizie di casa. Sa solo che ora le sembra che la casa non sia mai pulita, lava e rilava tutto da cima a fondo più volte al giorno. Ha paura che i germi contamino la casa, diventando fonte di malattie per lei e per i suoi familiari. Ogni volta che qualcuno entra in casa deve prima togliersi le scarpe e i vestiti, perché tutto quello che viene da fuori può essere contaminato. Ne segue che molto raramente Caterina riceve visite da parte di amici, dal momento che è consapevole dell’irragionevolezza del suo comportamento e se ne vergogna.. Le attività di pulizia della casa ormai le portano via quasi tutta la giornata: non riesca a fare altro. Non è mai sicura dell’efficacia delle pulizie e non avendo altri mezzi per controllare che tutto sia effettivamente disinfettato, ricomincia a pulire.

A Caterina è stata fatta diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Il nome di tale disturbo ne riassume le caratteristiche fondamentali: da un lato le ossessioni, dall’altro le compulsioni.

Di che cosa si tratta?

Il DSM IV-TR definisce le ossessioni come pensieri, impulsi e immagini ricorrenti e persistenti vissuti almeno in qualche momento del corso del disturbo, come intrusivi e inappropriati e che causano ansia e disagio marcati. Le ossessioni non sono semplicemente eccessive preoccupazioni per i problemi della vita reale (es. se ho perso il lavoro e il mio conto in banca è in rosso e io non riesco a smettere di pensarci, questa non può essere considerata un’ossessione in senso clinico poiché fa riferimento a un problema reale). Le persone tenta di ignorare o sopprimere le ossessioni, o di neutralizzarle con altri pensieri o azioni, ma invano, la persona, inoltre, riconosce che tali ossessioni sono un prodotto della sua mente (e non imposti dall’esterno).
Nel caso di Caterina, la sua ossessione è il pensiero ricorrente e intrusivo che la sua casa possa contaminarsi con dei germi, pensiero che non riesce a scacciare e che le rimane fisso in testa.
Le compulsioni, sempre secondo la definizione del DSM IV, sono comportamenti ripetitivi (es. lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (es. pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta a un’ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente. Le compulsioni sono volte a prevenire o ridurre il disagio o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; ad ogni modo però questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o a prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi.
La compulsioni di Caterina è quella di pulire continuamente la casa nel tentativo di neutralizzare tutti i germi e disinfettare al 100% la casa.

Tra ossessioni e compulsioni quindi è possibile individuare una relazione diretta. Le compulsioni, infatti, nascono come “soluzione” per far tacere le ossessioni, ad esempio risolvendo teoricamente la situazione temuta oppure eliminando i dubbi che la persona ha e che dipendono dalle ossessioni.
Caterina teme che la casa possa essere contaminata dai germi. Questo pensiero le causa forte ansia e stress negativo (di stress). Per diminuire l’ansia e il di stress Caterina è quindi portata a intensificare i comportamenti di pulizia. Questi comportamenti non sono però sufficienti in quanto non possono eliminare al 100% il dubbio circa il fatto che ci siano dei germi. In questo modo l’ossessione di rafforza e di conseguenza anche la compulsione. E’per questo motivo che non riesce a smettere di pulire. Si è creato un circolo vizioso.

OSSESSIONI—–>ANSIA—–>COMPULSIONI—–>OSSESSIONI

Mi riconosco nella descrizione delle ossessioni e delle compulsioni: significa che soffro di Disturbo Ossessivo-Compulsivo?

I pensieri ossessivi e le compulsioni fanno parte del comportamento umano e non necessariamente vanno categorizzati come elementi patologici. A tutti prima o poi è capitato di tornare indietro a controllare di aver chiuso la macchina o la porta di casa perché non si era sicuri di averlo fatto. Così come a tutti prima o poi è capitato di mettere in atto comportamenti scaramantici per scongiurare eventi negativi. Alcuni possono anche avere vere e proprie ossessioni di rilevanza clinica, con le loro conseguenti compulsioni, ma non per questo si parla di disturbo ossessivo-compulsivo. Le ossessioni sono un’esperienza comune, quasi tutte le persone le hanno.
A tal proposito il DSM IV molto saggiamente ha introdotto un importante criterio, necessario per fare diagnosi di questo disturbo: le ossessioni o compulsioni devono causare disagio marcato nella persona, facendo consumare tempo (più di un’ora al giorno) oppure interferendo significativamente con le normali abitudini di vita, con il funzionamento lavorativo (o scolastico) o con le attività o relazioni sociali usuali.
Caterina rispetta in pieno questo criterio: passa quasi tutto il giorno a pulire casa, non esce quasi mai né permette che altri la vadano a trovare.

Per una corretta valutazione del problema è necessario pertanto indagare una molteplicità di fattori, tra cui:

  1. il tempo passato nelle ossessioni (o il tempo libero dalle ossessioni)
  2. l’interferenza derivante dalle ossessioni
  3. il distress associato ai pensieri ossessivi
  4. la resistenza rispetto alle ossessioni
  5. il grado di controllo sui pensieri ossessivi
  6. il tempo passato eseguendo i comportamenti compulsivi (o il tempo libero da compulsioni)
  7. l’interferenza dovuta ai comportamenti compulsivi
  8. il distress associato ai comportamenti compulsivi
  9. la resistenza rispetto alle compulsioni
  10. il grado di controllo sui comportamenti compulsivi

Come si manifesta il disturbo ossessivo-compulsivo?

I sottotipi di disturbo ossessivo-compulsivo sono in numero potenzialmente infinito, dal momento che le ossessioni e le compulsioni possono assumere caratteristiche molto differenti tra loro. La pratica clinica e la ricerca però hanno messo in luce le principali tipologie che è possibile riscontrare.

I principali tipi di ossessioni sono:

  1. ossessioni aggressive (far male a sé o agli altri, pronunciare oscenità o insulti, rubare oggetti, ecc.)
  2. ossessioni di contaminazione (preoccupazione o disgusto per i rifiuti o le secrezioni del corpo, per lo sporco, per i germi, per contaminanti ambientali, animali, ecc.)
  3. ossessioni sessuali (pensieri, immagini o impulsi sessuali proibiti o perversi; pensieri di pedofilia o incesto o omosessualità, ecc.)
  4. ossessioni di accaparramento/accumulo (incapacità di buttare via oggetti e loro accumulo)
  5. ossessioni a sfondo religioso (preoccupazioni rispetto a sacrilegi o peccati di blasfemia; eccessiva moralità; ecc.)
  6. ossessioni di simmetria o di precisione (bisogno che le cose siano messe in un certo ordine, che seguano determinati schemi, ecc)
  7. ossessioni varie (necessità di sapere o ricordare; timore di dire certe cose; timore di non dire proprio la cosa giusta; paura di perdere oggetti; ecc.)
  8. ossessioni somatiche (ossessioni per le malattie; eccessiva preoccupazione per alcune parti del corpo o per l’aspetto, ecc.)

Le categorie relative alle compulsioni sono invece:

  1. compulsioni di pulizia/lavaggio (eccessivo o ritualizzato lavaggio delle mani, fare la doccia, fare il bagno, lavarsi i denti, pettinarsi, pulirsi in generale; pulizia della casa o di altri oggetti inanimati, ecc.)
  2. compulsioni di controllo (serrature, stufe, ecc; che non sia avvenuto o non avverrà alcun danno a qualcuno o a se stessi; che non sia successo o non succederà nulla di terribile; che non si commetteranno errori, ecc.)
  3. rituali ripetuti (riscrivere o rileggere; necessità di ripetere attività di routine come entrare/uscire da una porta, sedersi/alzarsi da una sedia, ecc.)
  4. compulsioni relative al contare (contare mentalmente fino a un certo numero; contare  quanti elementi costituiscono qualcosa; pensare che certi numeri siano fortunati e quindi fare le cose contando fino a quel numero)
  5. compulsioni di riordino/ridisposizione (sentire il bisogno di mettere in ordine le cose secondo precise disposizioni)
  6. compulsioni di accaparramento/accumulo (di posta, di vecchi giornali, di rifiuti, di oggetti inutili, ecc.; ciò va distinto dalla raccolta per hobby o di preoccupazione per oggetti di valore sentimentale o monetario);
  7. compulsioni varie (rituali mentali, che invece di essere agiti vengono fatti mentalmente; compilazione eccessiva di elenchi; necessità di dire, chiedere, confessare, ecc.)

E’ possibile stare meglio?

Il disturbo ossessivo-compulsivo ha il potere di incidere molto negativamente sulla qualità di vita delle persone che ne soffrono. Per questo è importante cercare aiuto tempestivamente al fine di evitare il cronicizzarsi del disturbo.
Qualora il disturbo ossessivo-compulsivo si presenti in modo invasivo e doloroso per la persona è opportuno chiedere aiuto a uno psicoterapeuta, visto il basso tasso di remissione spontanea di tale disturbo (ciò significa che molto difficilmente una volta instauratosi il DOC “passa da solo”).
La psicoterapia cognitivo-comportamentale offre trattamenti efficaci e validati scientificamente. Obiettivo principale di tale psicoterapia è la riduzione delle ossessioni da un lato e delle compulsioni dall’altro, allo scopo di “liberare” la persona dai circoli viziosi cognitivi e comportamentali che la fanno stare male.
In caso di situazioni particolarmente difficili è inoltre possibile ricorrere alla farmacoterapia, mirata alla diminuzione dei sintomi.
L’impiego sinergico della psicoterapia cognitivo-comportamentale e della farmacoterapia è auspicato e garantisce una maggiore probabilità di efficacia del trattamento.

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La fobia sociale

Posted by federicapaterlini su 24 gennaio 2010

 

 

“G. ha 19 anni e frequenta il primo anno di università. G. è sempre stato, fin dall’adolescenza, piuttosto riservato e con pochi amici. Da un anno ha iniziato l’università ma, nonostante i numerosi appelli d’esame che sono previsti nella sua facoltà non è mai riuscito a presentarsi a nemmeno un esame. I genitori sono preoccupati perché vedono che studia molto (quasi otto ore al giorno), si prepara con attenzione e fino a venti giorni prima dell’esame di iscrive e dice che andrà..poi piano piano..mentre passano i giorni sente sempre più la paura di non essere abbastanza pronto, essere bocciato e deriso dai suoi compagni o sbeffeggiato dal docente, teme di dire cose sbagliate o di non riuscire a far uscire un filo di voce…”

 

“S. ha 35 anni ed è sposata. Lavora nell’attività commerciale del marito. Quando riceve i clienti S. diventa molto ansiosa. Accade anche quando il marito invita colleghi o amici a casa. Teme di poter fare qualcosa di sciocco, di non aver nulla da dire e che gli altri notino il suo disagio, la sua goffagine e il tremore delle sue mani. Da circa tre mesi a questa parte S. ha chiesto al marito di non invitare più nessuno a casa e di uscire lui lasciandola a casa in quanto dice di non sentirsi a suo agio. Le situazioni in cui si sente maggiormente a disagio sono: incontrare persone nuove, interagire con loro, firmare davanti ad altri. Solo con due coppie di amici di vecchia data riesce ancora ad uscire abbastanza serenamente o ad invitarli a casa. La signora definisce, da sempre, timida nel senso che è sempre stata in ansia quando doveva incontrare persone nuove perché si sentiva valutata.”

 

La Fobia Sociale è un disturbo molto diffuso . Nel corso della vita ne soffrono dall’ 1,5 al 4,5% della popolazione. Nelle donne è leggermente più frequente rispetto agli uomini, che più spesso soffrono di disturbo evitante di personalità. Solitamente l’inizio è in adolescenza/prima età adulta. Spesso accade che le persone con questa difficoltà non cercano aiuto arrivando ad un decorso cronico.

Spesso è davvero invalidante per la persona, soprattutto perché a causa del loro disturbo preferiscono stare nascoste e non parlarne con nessuno.

 

 

COS’È ????

I manuali diagnostici (DSM IV-TR ed ICD 10) classificano la fobia sociale tra i disturbi d’ansia.

Ciò che caratterizza questo disturbo è la paura di essere osservati, giudicati o di essere al centro dell’attenzione altrui e trovarsi in situazioni sociali. Ciò che si teme è il giudizio negativo degli altri.

Chi soffre di questo disturbo può temere che gli altri possano trovargli dei difetti o che possano considerarlo incompetente, ansioso, stupido, debole o addirittura “pazzo”. Questa paura può manifestarsi quando si parla con altre persone, quando si fa qualcosa mentre altri lo guardano (scrivere, mangiare, bere) o quando si deve parlare in pubblico o, semplicemente,  ci si trova tra altre persone con la possibilità di attirarne l’attenzione.
Ad esempio: è possibile che provino timore di parlare in pubblico per la preoccupazione di dimenticare improvvisamente quello che devono dire o per la paura che gli altri notino il rossore del viso, il tremore delle mani o della voce, oppure perché potrebbero dire o fare qualcosa di sbagliato o imbarazzante, apparire goffo o avere un attacco di panico.

Queste persone cercano in tutti i modi evitare le situazioni che gli creano disagio oppure, se sono costrette, sopportano tali situazioni con un carico di disagio molto elevato.

Le situazioni che più facilmente sono temute:

– parlare in pubblico (fare un’esposizione, un discorso…)

– andare ad una festa

– scrivere/firmare davanti a qualcuno

– fare la fila

– usare il telefono davanti a qualcuno

– mangiare o bere in pubblico

– usare bagni o mezzi di trasporto pubblici

– alcuni temono anche di avere funzioni corporee imbarazzanti in momenti non opportuni (vomitare, ruttare, emettere flatulenze, perdere il controllo dell’intestino o della vescica).

I sintomi ansiosi nel maggior numero di casi sono quelli dovuti all’attivazione del sistema nervoso autonomo (risposta attacco-fuga):

  • palpitazioni (79%)
  • tremori (75%)
  • sudori (74%)
  • tensione muscolare (64%)
  • nausea (63%)
  • secchezza delle fauci (61%)
  • vampate di calore (57%)
  • arrossamenti (51%)
  • mal di testa (46%)

Alcuni hanno più paura delle situazioni in cui gli viene richiesta una performance, una prestazione, mentre altri temono, più in generale, le interazioni sociali.

Ricapitolando, per ora sappiamo che la fobia sociale è una paura eccessiva, angosciante e spesso invalidante delle situazioni sociali dovuta al timore di fare/dire qualcosa di imbarazzante, umiliante o che causi un giudizio negativo o un rifiuto da parte degli altri. Si manifesta con un’attivazione fisiologica importante e spesso, le situazioni che incutono timore vengono evitate dalla persona che prova tale paura.

Una ulteriore caratteristica del disturbo è l’ansia marcata che precede le situazioni temute, detta anche: ansia anticipatoria. Questo termine di riferisce al fatto che la persona inizia ad avere paura anche prima di affrontare una situazione sociale (per esempio andare ad una festa o andare ad una riunione di lavoro). La preoccupazione per l’evento inizia tempo prima dell’evento ed il più delle volte sale proporzionalmente all’avvicinarsi dell’evento stesso.
Può accadere, per questo motivo, che si instauri un circolo vizioso: l’ansia anticipatoria, cioè più il soggetto si preoccupa della sua prestazione nella situazione temuta più aumentano i sintomi ansiosi (anche fisiologici) e maggiore è la probabilità che metta in atto effettivamente una prestazione scadente o percepita come tale, nelle situazioni temute. Esaminando la propria prestazione a posteriori la persona connoterà la performance in senso negativo, confermando la sua inabilità.

Come spesso accade anche in altri disturbi fobici, le persone che provano ansia in situazione  possono avere difficoltà, in quel momento, a riconoscerne l’irragionevolezza, mentre lontano dalle situazioni temute si rendono conto che le loro paure sono irragionevoli od  eccessive. Ciò spesso fa sentire la persona, ulteriormente, in colpa per le condotte evitanti.

I manuali diagnostici e l’esperienza clinica hanno condotto a discriminare tra due sottotipi di disturbo d’ansia sociale:

semplice o circoscritta: quando l’ansia e l’evitamento riguardano una sola situazione sociale (ad esempio: dare esami o parlare in pubblico…etc…)

 

 

generalizzata:  può essere usata quando le paure riguardano la maggior parte delle situazioni sociali (per es., iniziare o mantenere la conversazione, partecipare a piccoli gruppi, parlare a persone che occupano una posizione di autorità, partecipare a feste). Di solito sono temute sia le situazioni che comportano prestazioni pubbliche sia le situazioni che prevedono interazioni sociali.

FOBIA SOCIALE-TIMIDEZZA-NORMALE ANSIA SOCIALE…

QUALE DIFFERENZA?

Chi soffre di fobia sociale:

– comincia a preoccuparsi molto tempo prima

– sta sempre peggio prima della situazione

– la volta successiva può essere ancora più preoccupato (effetto del circolo vizioso che si autoalimenta).

Molte persone si definiscono “timide”. La timidezza potremmo definirla come un’eccessiva coscienza di se stessi, una forma piuttosto lieve di fobia sociale ma certamente meno invalidante rispetto all’ansia sociale. Spesso può essere presente in alcuni periodi dell’infanzia ed è molto comune in adolescenza, quando ci si inizia a preoccupare maggiormente del giudizio altrui. Nella maggior parte dei casi la timidezza tende a diminuire con il tempo, pur essendoci alcune situazioni sociali nelle quali può permanere un certo grado di ansia (parlare in pubblico, andare da soli ad incontri sociali in cui non si conosce nessuno).

Ciò che differisce maggiormente una persona che soffre di fobia sociale da chi non ne soffre è l’intensità e il tempo in cui si prova ansia anticipatoria (chi non soffre di ansia sociale inizierà a preoccuparsi solo poco prima della situazione stessa ed inoltre durante l’esecuzione l’ansia si ridurrà gradualmente e la volta successiva il livello di ansia potrebbe essere lievemente più basso rispetto all’attuale), inoltre l’ansia non è opprimente e non porta a produrre evita menti. L’ansia, in alcune situazioni, ad esempio pubbliche, come esporre una relazione ad una platea, viene considerata normale…purchè non venga malamente sopportata o non conduca ad evita menti.

 

È POSSIBILE FARE QUALCOSA?

La psicoterapia è riconosciuta come un trattamento fondamentale per la fobia sociale e studi mostrano che, come per altri disturbi dello spettro ansioso, il trattamento psicoterapeutico generalmente più efficace è quello cognitivo-comportamentale.

Tale trattamento si concentra sul trattamento diretto del sintomo e si preoccupa di lavorare per modificare i pensieri disfunzionali e, parallelamente, di offrire migliori capacità ed abilità per affrontare le situazioni temute.

Il lavoro può richiedere impegno da parte della persona anche perché il soggetto è considerato in modo attivo e anche il lavoro sui pensieri spesso necessita di esposizioni reali graduate e pianificate.

Nel trattamento può rientrare, secondo le caratteristiche della persona, una fase di insegnamento di abilità per la gestione delle situazioni sociali. Tali abilità possono prevedere sia tecniche di rilassamento per la gestione dell’ansia, sia tecniche per la gestione di interazioni verbali (training assertivo: gestione delle conversazioni, fare richieste ed esprimere i propri bisogni, imparare a dire di no quando se ne ha l’intenzione, gestire le critiche che vengono rivolte).

Tale trattamento può essere proposto in sedute individuali oppure in gruppo.

Una ulteriore possibilità è il trattamento farmacologico per la riduzione dei sintomi. Per questo tipo di trattamento è preferibile consultare un medico specialista in  psichiatria che valuti in modo coscienzioso la miglior terapia da intraprendere. Uno degli aspetti sottolineati da molteplici studi è che, nella maggioranza dei casi, i miglioramenti sintomatologici ottenuti tendono a perdersi con la sospensione del farmaco perciò spesso viene consigliato di intraprendere, parallelamente ad un trattamento farmacologico uno psicoterapico.

Mi rendo conto della non esaustività di queste parti che contengono iniziali informazioni. Se aveste bisogno di ulteriori approfondimenti, scriveteci, non appena sarà possibile proveremo a rispondere ai vostri dubbi.

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Le distorsioni cognitive

Posted by lorenatorresan su 27 Maggio 2009

Una piccola grande rivoluzione nel panorama della psicologia è stata quella ad opera di due psicologi, Albert Ellis e Aaron Beck, i quali con modalità differenti sono giunti alle medesime conclusioni: il nostro modo di pensare influenza la nostre emozioni. Non è il fatto che ci sia il sole o che sia nuvoloso a fare di una giornata una bella giornata, ma il significato che il sole o le nuvole hanno per noi.

In particolare questi autori hanno messo in luce come nell’indirizzare i nostri pensieri agiscano veri e propri errori formali di ragionamento: errori logici.

Il nostro cervello non è fatto per seguire sempre la logica nel trarre conclusioni, anzi, ma questo non è necessariamente un male. L’agire in modo impulsivo, senza troppi ragionamenti logici, spesso è infatti alla base di meccanismi importanti di sopravvivenza.

Le distorsioni cognitive, ossia le modalità di ragionamento che non seguono la logica, sono per tutti noi all’ordine del giorno: senza rendercene conto, le usiamo spessissimo. A volte sono utili, molte volte però ci fanno stare peggio, portandoci ad una interpretazione degli eventi negativa e a conseguenti emozioni negative.

Beck e Ellis ne hanno individuate alcune.

INFERENZA ARBITRARIA: trarre conclusioni in mancanza di evidenze sufficienti

Esempio. Incontriamo una persona che non vediamo da un po’, la vediamo avvicinarsi dall’altra parte della strada ma non ci saluta. Pensiamo: E’ la solita antipatica, ha fatto finta di vedermi. Ma non abbiamo prove per ritenere che ci abbia effettivamente visto, potrebbe essere stata sovrappensiero e non averci notato.

ASTRAZIONE SELETTIVA: concentrare l’attenzione su aspetti particolari della situazione in esame, tralasciandone altri.

Un esempio. Organizziamo una cena, tutto va come dovrebbe tranne il dolce, che non è lievitato abbastanza. Pensiamo: Accidenti, la cena è andata da schifo. Ma solo il dolce non era come volevamo, il resto è andato bene!

ECCESSIVA GENERALIZZAZIONE: adattare conclusioni derivate da eventi isolati a svariate situazioni.

Un esempio tipico di eccessiva generalizzazione sono gli stereotipi. Con uno stereotipo attribuiamo a un’intera categoria di persone delle caratteristiche senza verificarle. “I tedeschi (tutti i tedeschi) sono precisi.” “I genovesi (tutti i genovesi) sono tirchi.” Ma esistono tedeschi disordinati e genovesi generosi!

INGIGANTIRE/MINIMIZZARE: esaltare o ridurre l’importanza di eventi e situazioni. Minimizzare è un processo simile a quello della svalutazione in cui le esperienze positive non vengono considerate in quanto prive di valore. In genere si ingigantiscono gli aspetti negativi e si minimizzano quelli positivi. Accade quasi sempre così che vengano ingigantite le critiche (possono essere vissute molto male, con un eccessivo senso di colpa per aver sbagliato) e che vengano minimizzati i complimenti (alzi la mano chi non ha mai minimizzato almeno una volta un complimento ricevuto! Frasi tipiche: “Me l’ha detto perché voleva essere gentile.” “Sì, ma mica lo pensa davvero.” “Grazia ma non me lo merito.”)

PERSONALIZZAZIONE: interpretare eventi esterni in relazione alla propria persona, in mancanza di evidenze plausibili.

Quante volte ad esempio ci siamo sentiti in colpa perché è successo qualcosa di brutto, anche se non è stata oggettivamente colpa nostra? Ogni volta si pensa: Eh, se avessi fatto, se avessi detto, magari quella cosa non sarebbe successa…

LETTURA DEL PENSIERO: essere convinti che le persone abbiano determinati pensieri o provino determinate emozioni in assenza di prove (Altra distorsione molto frequente. Vorrei che mio marito/il mio fidanzato facesse quella cosa per me. E penso: se mi ama SAPRA’ che io me lo aspetto…ma molte volte le persone anche se ci vogliono bene semplicemente ignorano i nostri pensieri, e non sanno quelli che sono i nostri desideri finché non glieli diciamo).

PENSIERO DICOTOMICO: collocare le esperienze in una o due categorie opposte.

Quante volte nella nostra vita ci è capitato di ignorare l’esistenza del grigio, e di vedere solo il bianco e il nero? Il pensiero dicotomico può essere riferito a come noi vorremmo essere (O sono perfettamente magra come penso di dover essere o faccio schifo), a qualcosa che noi facciamo (O prendo 30 all’esame oppure tanto vale rifiutare il voto.),  alle persone che ci sono care (Mio marito o mi ama completamente oppure non ha senso stare insieme) o infine possono anche essere riferite al mondo che ci circonda (O una cosa è giusta o non lo è). Il pensiero dicotomico divide il mondo in due, semplificandone la complessità e eliminando le sfumature. Questo porta a modalità di pensiero molto rigide.

DOVERIZZAZIONI: consistono nel dire a se stessi che si dovrebbe fare (o si dovrebbe avere fatto) qualcosa, quando è più esatto dire che si preferirebbe fare o si avrebbe preferito avere fatto quel qualcosa.

Colleghe strette del pensiero dicotomico, le doverizzazioni si manifestano con affermazioni e pensieri del tipo: “Devo essere il più bravo a scuola.” “Devo essere una mamma perfetta.” “Non mi è consentito sbagliare, devo fare tutto in modo perfetto.”

PENSIERO CATASTROFICO: pensare di sapere che cosa preserva il futuro, ignorando altre possibilità.

Capita di pensare che è inutile provare a fare quella cosa, che tanto tutto andrà male e non ci sarà modo di uscirne. A volte la situazione è davvero grave, ma a volte no, e in ogni caso pensieri di questo tipo non aiutano ad affrontarla nel modo ottimale.

RAGIONAMENTO EMOZIONALE: credere che qualcosa debba essere vero perché viene percepito come tale.

A volte le emozioni ci guidano, senza che ce ne rendiamo conto e ci comportiamo di conseguenza e ad esempio il fatto di provare ansia viene visto come prova del fatto che c’è effettivamente bisogno di preoccuparsi.

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Che cos’è l’ansia?

Posted by lorenatorresan su 27 Maggio 2009

CHE COS’E’ L’ANSIA?

La parola ANSIA fa parte, insieme a tutti i suoi derivati (ansioso, ansiogeno, ansiolitico, ecc.) del vocabolario informale utilizzato nella vita quotidiana di tutti. Non solo, a ben pensarci tali termini vengono impiegati giorno dopo giorno non solo da tutti ma con una frequenza quasi sorprendente. Questo perché tutti nella vita abbiamo più o meno consapevolmente provato ansia. Attualmente però l’uso del termine ansia viene impiegato in una gamma di situazioni talmente vasta che finisce per indicare cose molto distanti tra di loro. L’uso ampio e vario del termine ansia spesso crea confusione.

Ma che cos’è quindi l’ansia? Come fare a riconoscerla?

L’ansia viene definita dal DMS (APA, 1994) come

“Anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro”.

Secondo questa definizione quindi l’ansia è quello che succede alla nostra persona quando ci aspettiamo che accada qualcosa di potenzialmente negativo. Il nostro organismo si prepara a tale evento.

E che cos’è che succede alla nostra persona in quei momenti, nei momenti di “ansia”?

Quello che ci succede è suddivisibile in 3 categorie: quello che sento, quello che penso e quello che faccio.

Quello che sento

Si tratta dei processi fisiologici che l’organismo umano mette in atto in maniera automatica. Quello più noti sono i seguenti:

–  Aumento del ritmo respiratorio (che porta a un senso di affanno e di soffocamento)

–  Aumento del ritmo cardiaco (il “cardiopalma”, ossia la tachicardia, il sentirsi il cuore in gola)

–  Aumento della temperatura corporea (si sente caldo, si suda freddo)

–  Aumento della sudorazione (le mani diventano sudaticce, si sente di sudare)

Esistono altre risposte fisiologiche meno universalmente comuni ma frequenti quali ad esempio l’attivazione circolatoria del volto che porta a rossore e il tremore (alle mani, della voce…).

Prendiamo un esempio tipico di situazione ansiogena. A tutti prima o poi è capitato di dover sostenere un esame o una verifica di qualsiasi tipo: concentrate l’attenzione sull’ultimo esame che avete dovuto sostenere. Quali di queste risposte fisiologiche vi sono capitate? Sono state spiacevoli?

Quello che penso

Le risposte fisiologiche viste nel paragrafo precedente sono sempre accompagnate da una catena di pensieri. Solo parte di tali pensieri è controllata consapevolmente, il resto compare in modo automatico nella nostra mente. Al contrario dei processi fisiologici, che è stato possibile studiare  in generale per tutti gli individui, i processi cognitivi sono specifici di ogni persona. Quello che pensiamo in una situazione di ansia dipende da una molteplicità di fattori tra cui la nostra storia personale e familiare, l’ambiente di vita in cui viviamo, quello che per noi è importante nella vita, le preoccupazioni che abbiamo giorno dopo giorno, eventuali pensieri ricorrenti che sbucano nella nostra testa anche in altre situazioni.

Beck (1987), uno dei fondatori della psicologia cognitiva, ha però individuato alcune modalità di pensiero che risultano problematiche non tanto per il loro contenuto quanto per la loro forma. In particolare Beck parla di distorsioni cognitive quando i nostri pensieri sono “scorretti” dal punto di vista logico. Ad esempio forse a qualcuno di voi sarà capitato di avere un piccolo incidente. C’è chi anche di fronte a piccoli incidenti reagisce pensando cose tipo: “O mamma che tragedia, ora come faremo? Non riusciremo a risolvere la situazione.” Tali pensieri secondo Beck sono scorretti dal punto di vista logico poiché non abbiamo prove tangibili per arrivare a una tale conclusione. Inoltre trattandosi di un piccolo incidente, è più probabile invece che si tratti di qualcosa di facile soluzione. (Per un approfondimento sulle distorsioni cognitive, cliccare qui.)

Quello che pensiamo è molto importante poiché a il  tipo di pensiero che facciamo ci porta ad affrontare le situazioni in un modo piuttosto che nel loro contrario. La persona dell’esempio di prima difficilmente si metterà subito al lavoro per risolvere il problema, tutta presa com’è dalle sue preoccupazioni. Un pensiero meno catastrofico la potrebbe certamente aiutare a mettere in atto comportamenti più costruttivi.

Considerate nuovamente l’esame di prima: che cosa avete pensato negli istanti che lo avevano preceduto? I pensieri che avete fatto vi hanno aiutato ad affrontare l’esame o vi sono stati di ostacolo?

Quello che faccio

Ecco, siete di fronte al pericolo temuto. Il sistema nervoso autonomo si è attivato, avete la testa piena di pensieri anticipatori su quanto sta per accadere: che cosa fate? Di fronte a un pericolo, non sono molte le alternative. Possiamo affrontarlo o possiamo fuggire. Gli inglesi parlano di risposta fight or flight (combatti o scappa). In entrambi i casi, sia che decidiamo di affrontare quello che temiamo sia che si opti per la fuga (tecnicamente si parla di risposta di fuga o evitamento) l’ansia diminuisce.

Ma che cosa significa in pratica evitare gli stimoli ansiogeni? Evitare le cose che ci procurano ansia è qualcosa che quotidianamente accade molto spesso, più di quanto di creda. Evitamenti frequenti sono ad esempio: rimandare una telefonata scomoda, procrastinare impegni fastidiosi,  allontanarsi non appena si intravede un animale temuto (es. topi, ragni, cani), cercare di non pensare a un problema che invece andrebbe risolto, ecc.

Ripensate un’ultima volta all’esame. Come vi siete sentiti una volta che avete iniziato a farlo? L’ansia è diminuita man mano che procedevate?

Ma l’ansia è buona o cattiva?

 

Nel vocabolario italiano la parola ansia ha un’accezione negativa. L’ansia nel senso comune è qualcosa di spiacevole che se potessimo elimineremmo dalla faccia della terra. C’è però chi sostiene che l’ansia è positiva in quanto aiuta ad affrontare certe situazioni ad esempio aumentando la concentrazione.

Chi ha ragione?

A sciogliere il dilemma viene in nostro aiuto una legge matematica scoperta da due scienziati nel 1908,  Robert M. Yerkes e John Dilligham Dodson: la Legge di Yerkes-Dodson. Questa legge chiarisce il rapporto tra livello di ansia e prestazione effettuata. In pratica ci dice quanta ansia dovremmo avere per ottenere una prestazione ottimale. Quello che è emerso dagli studi di Yerkes e Dodson è che l’ansia è effettivamente utile a livelli moderati. In pratica, non deve essere troppa né però deve essere completamente assente. A livello matematico questo concetto viene espresso dalla curva rappresentata nel grafico. Sulla linea delle ascisse abbiamo il livello di ansia, sulla linea delle ordinate la qualità della performance. Come viene evidenziato dal grafico stesso, i livelli più alti di performance si hanno con un livello di ansia medio.
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